Tutto nasce dall’input di Cristiana, la nostra Social Media Manager: «Ragazzi, perché non parliamo dello schwa?». Giusto, perché no…ma come?
Ah già, parlando!
Ed è così che io e Letizia abbiamo avuto una lunga conversazione in merito, grazie alla quale sono venuto a conoscenza di punti di vista che ancora ignoravo. Quello che segue è un riassunto e adattamento (depurato dalle frivolezze frutto di una giornata di lavoro) di quanto ci siamo detti.
Schwa: parliamone
L: Sai, ho quasi pudore a parlare di questo argomento… innanzitutto perché negli ultimi tempi è stato trattato moltissimo, in molti casi da persone più preparate di noi! Tuttavia, credo sia interessante osservare il punto di vista dell’uomo – e della donna – della strada.
S: Ecco, la mia visione in merito è concorde con quanto affermato dalla Crusca: trovo che l’uso dello schwa, dell’asterisco o di altri segni sia una forzatura della lingua, c’è già il maschile sovraesteso che svolge una funzione “neutra“. Insomma, nell’utilizzo del maschile non vedo una prevaricazione di genere.
L: Secondo me è una questione più complessa. Ammetto di non essermi posta il problema fino a qualche mese fa. Ma il fatto che si parli del possibile uso dello schwa (e di altre forme inclusive) dimostra che il problema esiste.
S: Ok, ma di che problema stiamo parlando?
L: Del sentirsi rappresentati. Un esempio: quando si parla di linguaggio inclusivo, l’obiezione che viene mossa, specialmente fra chi, come noi lavora nel settore dei servizi linguistici, è che potremmo servirci di ciò che la lingua italiana già ci offre. Che so, anziché dire: “ciao a tutti gli spettatori” si può dire “ciao a tutte le persone in ascolto” usando così una soluzione inclusiva.
S: E così si ovvia al problema di chi con un termine maschile non si sente rappresentato. E non si potrebbe dire: “ciao a tutti gli spettatori e a tutte le spettatrici”?
L: Certo, ma lo schwa fa qualcosa in più: tiene conto anche delle persone gender fluid e non binarie
S: È vero. Ma non è un po’ troppo “superficiale” affrontare una questione come l’identità di genere partendo dalla lingua? Senza poi tenere conto della sensibilità e delle esigenze dei singoli individui? Quando dico buongiorno a tutti, intendo proprio tutti tutti, nessuno escluso, e penso che questo venga percepito.
Ma poi, come trasliamo lo schwa nella lingua orale?
L: Si pronuncia come la “a” di “about… ma, se preferisci un esempio meno esterofilo, è una vocale “muta” che sentiamo spesso nei dialetti del centro e sud Italia. Pensa alla parola “mamm’t”: ecco!
S: Sto cercando un esempio che possa essere calzante per me, nel quale io non mi sentirei rappresentato. Un esempio potrebbe essere quanto succedeva nell’ufficio dove lavoravo anni fa, le mie colleghe erano esclusivamente donne e al saluto “ciao ragazze” salutavo anche io, senza che mi desse fastidio. Lo notavo, però.
L: Probabilmente perché non ti sentivi rappresentato.
S: Sì, però i dettami dell’italiano dicono che “tutte” è riferito esclusivamente al genere femminile. E che “tutti” è per tutti e tutte.
L: Io sono più possibilista. I dettami possono cambiare, la lingua è una cosa viva! Anche se…ho sperimentato con schwa, asterischi, anche con la “u” finale (tipo “ciao a tuttu”), sia in comunicazioni scritte che verbali, e la difficoltà che ho riscontrato è quella di mantenere una coerenza nell’utilizzo di queste soluzioni. Iniziavo con le migliori intenzioni e poi mi perdevo subito, tornando a utilizzare maschile e femminile. Penso sia un po’ perché è difficile inserire un qualcosa di nuovo nella propria lingua madre, e un po’ per imbarazzo, perché ho riscontrato reazioni alterne, dalle più tranquille alle più indignate.
S: No, indignarsi mi sembra troppo, però in effetti se io non conoscessi il mio interlocutore e questo dovesse scrivermi utilizzando lo schwa o l’asterisco rimarrei colpito, perché a parere mio non si deve utilizzare finché un ente, ad esempio la Crusca, non lo riconosce.
L: Conta però che la Crusca è solo un gruppo di studiosi e ricercatori. Studiano quindi lo stato della lingua, non si tratta di normatori. L’Accademia è giustamente un punto di riferimento, però il suo ruolo in questo caso è quello di studiare il fenomeno, o di esprimere un parere in merito. Non può impedirne l’utilizzo.
S: Mi reputo una persona aperta di mentalità, la mia libertà finisce quando inizia la tua, però io non penso adotterò queste nuove soluzioni nemmeno in futuro.
L: Ci sta! Non è una contraddizione, puoi essere rispettoso del prossimo e non abbracciare questo cambiamento. Ti faccio però un altro esempio, forse banalizza ma rende l’idea:
se noi ci fossimo appena conosciuti e tu ti rivolgessi a me dandomi della “signora”, e io ti dicessi di darmi della “signorina”, perché “signora” mi fa sentire vecchia tu lo faresti senza problemi.
S: Certo, ma è insito negli schemi di comportamento. Se mi chiedessi di chiamarti “signore” sarebbe già diverso.
L: Ehi, sai che alla fine il bello di tutto questo è che ne stiamo parlando? Ed è un bene che se ne parli. Prima dicevi che è banale ridurre tutto a un dibattito linguistico, e invece parlare di lingua si sta rivelando un modo per ampliare il nostro sguardo.
S: Questo sì, dovremmo anzi parlarne di più. E lo dico da retrogrado conservatore della lingua italiana (ride). Resto dell’idea che dovremmo pensare a rendere più inclusiva la nostra società, ancora prima del nostro modo di esprimerci.
L: Capisco molto bene questa obiezione ma attento al trappolone del benaltrismo! (ride) Ritengo che sia sempre essenziale calarsi nei panni dell’altra persona. Quello che per noi non è un problema può esserlo per qualcun altro.
S: Allora dovremmo parlarne anche con altre persone, sentire altri punti di vista, che ne dici??
L: Certo! Forse si troverebbe la soluzione a tanti quesiti.
S: O magari troveremmo altri quesiti?
L: Probabile… ma l’idea mi piace!
Allora alla prossima conversazione, possibilmente allargata!